Fin dai tempi più antichi il pane ha rappresentato la base dell’alimentazione umana. Il suo ingrediente principale è una miscela di farina di frumento e altri cereali e antichissime sono le sue origini. Scavi archeologici e antiche iscrizioni permettono infatti di affermare che il pane ha una storia di circa 7800 anni. La sua nascita risale al periodo del Neolitico, in Mesopotamia, diffondendosi poi in tutte le antiche civiltà mediterranee. Da una iniziale poltiglia senza forma e senza lievito, il pane andò man mano acquisendo forme e sapori più simili a quelli di oggi, e dall’uso di mortai e macine, all’impasto con acqua, alla scoperta dei lieviti ad opera degli antichi egizi, e all’uso di forni, il pane ha seguito di pari passo la storia e l’evoluzione ell’uomo.
Gli antichi Greci usavano maltizzare l’orzo mettendolo a bagno finché germinava; poi lo tostavano leggermente in modo che diventasse digeribile. Con la farina e l’acqua confezionavano la maza, una pizzetta grigia e dura. Ancora oggi in Grecia si mangiano delle dure e friabili friselle d’orzo cotte due volte al forno e in Puglia si mangiano biscotti d’orzo di analoga fattura. Cinquanta, secondo alcuni addirittura settantadue, erano i tipi di pane in Grecia. Tra questi l’òlyra, confezionato con farina di segale, il condrìte, di farina di spelta, il syncomistòs, di farina di frumento, il semìdalis, un pane di lusso privo di lievito e quello che il commediografo Aristofane, in occasione del banchetto offerto a Demias, ricco ateniese, loda per la sua “bianchezza”. Verso l’epoca di Pericle, come afferma Plutarco, il pane greco divenne degno del suo nome artòs. A Taranto ricevette un nuovo nome, forse di origine messapica, destinato a fare strada: panòs. Il primo trattato di panificazione risale al 240 a.C. e fu redatto da Crisippo di Chiana.
I Romani in un primo momento si accontentarono di consumare i chicchi dei cereali abbrustoliti, o anche lessati o ridotti in pottiglia, ottenendo la cosiddetta plus, poi passarono alla focaccia azzima e solo tardivamente (circa a metà del II secolo a.C.) iniziarono a fare il pane, che divenne comunque un alimento importante della loro alimentazione. Le principali farine usate per la panificazione erano principalmente due: la prima, ricavata dal frumento siligo, era adoperata per preparare il pane di lusso, bianco e saporito, apprezzato e lodato da Orazio ai banchetti di Mecenate; la seconda, probabilmente derivata da una specie di Triticum, serviva per il pane secondarius. Tra i tipi di pane più famosi si ricordano la placenta e la offa, preparate per lo più con acqua e orzo, l’adipatus, condito con lardo, lo strepticius, una sfoglia cotta su una pietra arroventata impastata con farina, latte e olio; l’artolaganum, una sfoglia sottile impastata con acqua e farina, antenato probabilmente della pizza il cui nome deriva dalle parole greche artos (pane lievitato) e laganon (impasto di acqua e farina). Esistevano anche dei pani dolci che venivano usati essenzialmente come offerte votive: il libum, pane dolce a base di farina e miele, mangiato dopo le cerimonie dei sacerdoti dai loro domestici e dal pubblico presente alla cerimonia; lo janual, un libum speciale offerto a Giano; la tarunda, una schiacciata votiva di farro e miele.
Nel Medioevo una crisi generalizzata dovuta alle invasioni barbariche comportò l’abbandono delle campagne da parte dei contadini e solo quantità minime di grano venivano prodotte nei terreni dei castelli e dei conventi ed erano destinate a consumi molto selezionati, mentre il popolo ritornava a panificare con cereali più scadenti e persino con ghiande e altri succedanei. Solo con la ripresa economica in epoca comunale e con la diffusione di mulini ad acqua e a vento, capaci di ottenere una farina più fine e omogenea, fu possibile produrre maggiore varietà di pane. Nel Meridione, tuttavia, dopo l’epilogo federiciano, la situazione economica e sociale andò via via peggiorando di dominazione in dominazione, di feudatario in feudatario, e il pane bianco di farina di grano tenero (ovvero il pane dei signori) rimase un’aspirazione per molti.Nel Medioevo e in età moderna le alterne vicende politiche provocavano cattivi raccolti, rincari, ripiego forzato su succedanei di scarso valore nutritivo e tutto ciò era causa di disordini e rivolte delle classi subalterne e meno abbienti, come nell’assalto ai forni di manzoniana memoria.
Dopo la Rivoluzione Industriale l’agricoltura ebbe a disposizione nuove risorse e nuove tecniche; dagli anni 30 del ‘900 la cosiddetta “Rivoluzione Verde” comportò l’impiego massiccio di meccanizzazione pesante, di sementi selezionate, di monocolture industriali, di concimi chimici, di pesticidi e veleni. Le varietà locali di cereali e la biodiversità cominciarono ad esser messe a rischio da varietà moderne e selezionate. Oggi la minaccia proviene dalle biotecnologie: le stesse multinazionali agrochimiche (dei veleni) stanno invadendo il pianeta di sementi e organismi geneticamente modificati (Ogm); i semi di frumento geneticamente modificati sono monopolio (sotto brevetto) delle multinazionali (Monsanto, Syngenta, ecc.) e non più comune eredità culturale e biologica delle comunità agricole. Le biotecnologie del mondo globalizzato mettono definitivamente in pericolo la salute degli esseri umani e la biodiversità, ovvero il futuro dell’umanità e del mondo naturale.